“Il bello deve ancora venire”

Difficile fare una sintesi di una giornata intensa e poderosa come quella che abbiamo vissuto all’ultimo squero regionale. Fare sintesi non è per nulla un lavoro superfluo, necessaria conclusione di una riflessione precedente. La sintesi che segue la riflessione e l’analisi serve a farci porre delle nuove basi per farci andare avanti nel cammino. Certo ogni sintesi è parziale e soggettiva, non può includere tutto, non può dire tutto. Fare sintesi è fare delle scelte, dire quello che ci ha interessato di più per cercare di raccontarlo a sé stessi e ad altri, è prendere quello che ci serve di più per il proseguo della nostra storia. Perché il cammino non resti limitato all’analisi o alla carica emotiva che l’esperienza vissuta porta con sé.

La “mia” sintesi (parziale) della giornata dell’ultimo squero potrebbe essere focalizzata attorno a due grandi poli, che sono stati sostanzialmente i due momenti che tutti assieme abbiamo vissuto: la relazione fiume di Johnny Dotti al mattino e la veloce presentazione dell’Opera della Provvidenza della Sarmeola che ci ha ospitato per vivere il nostro incontro. L’obiettivo dei nostri incontri regionali (da tutti ritenuti tanto proficui e significativi, non fosse altro che per la grande partecipazione di AS) è innanzitutto formativo: dare a tutti occasioni di crescita attraverso differenti proposte e angolature. Di contenuto, di riflessione riguardante il cammino del nostro movimento di adulti situato nel tempo particolare che stiamo tutti vivendo (mattino), e di proposte di concretizzazione, di servizio e testimonianza (al pomeriggio).

Il mattino. La riflessione sulla cittadinanza di Johnny Dotti. Ritengo che sia impossibile e inutile riassumere (i mezzi che abbiamo a disposizione ci permettono di accedere all’intera relazione sul sito). Esprimo alcune sensazioni che non hanno alcuna pretesa di completezza. La relazione sulla Cittadinanza coincideva con la figura e la persona del relatore: Johnny. Una valanga, un fiume in piena che travolge ogni certezza, un susseguirsi di violenti scossoni alla nostra calma e placida esistenza. Un modo di affrontare i problemi graffiante, turbinoso. Una specie di spettacolo coinvolgente (a tal punto che nessuno avrebbe voluto che la relazione avesse mai fine). Scopo dell’intervento è spiazzare, dare una forte scrollata alle nostre convinzioni, o forse sarebbe meglio dire alla nostra tiepidezza. Ce l’ha detto anche lui: attendiamo l’incontro dello squero come una possibilità piacevole di incontrarci e quando arriviamo a viverlo ci sentiamo sbatacchiare in questo modo. Chi ce l’ha fatto fare? ma forse è vero che questa esperienza di “spiazzamento”, di “sconvolgimento” fa esattamente parte dell’attitudine al pensare che accompagna, o dovrebbe accompagnare, l’essere umano. Il pensare fa parte del cammino di formazione che siamo chiamati a vivere in ogni età e fase della nostra vita di esseri umani. Viviamo la formazione/pensiero a livello personale e a livello comunitario, a partire dalla nostra fede e guardando a tutte le cose che succedono nel mondo che ci circonda. È proprio del pensiero/pensare non dare nulla per scontato, rendere problematica ogni cosa, non per il gusto di essere problematici ma perché la realtà, tutta la realtà che viviamo, non è semplice ma complessa. Il pensiero ci aiuta e stimola a diffidare di ogni proposta e visione semplificatrice della realtà, a non fidarci mai delle apparenze e delle proposte facili che ci vengono fatte, perché molto spesso queste si fermano solo alla superficie, non vanno mai in profondità. Quanto meno gli uomini, le masse sono disabituate a pensare tanto più diventano facile preda degli interessi dei poteri politici ed economici.

Per continuare in questa riflessione si potrebbe dire che noi comuni mortali siamo poco abituati a pensare. Poco abituati a pensare perché incapaci sostanzialmente di farlo. O meglio ognuno è capace di pensare alla propria maniera, con la propria mentalità e magari si sente irritato quando qualcuno gli fa’ presente che le cose non stanno proprio come lui le sta pensando. La realtà corre veloce, turbinosa senza che noi siamo in grado di comprenderla. La maggioranza degli esseri umani non è capace di pensare, non ha gli strumenti per farlo, non è formata per farlo. Almeno a livello professionale. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a farlo. Sottolineiamo: che ci aiuti a pensare, non che pensi al nostro posto. Ecco il senso di figure come quella di Johnny. Persone che  hanno il carisma e la competenza di aiutare a pensare. La figura del formatore, preziosa perché aiuta a risvegliare in noi l’attitudine a pensare, ad andare in profondità ai problemi in cui siamo immersi. Altra sottolineatura: non è necessario che usciamo da incontri come quelli di domenica, tranquilli, sereni, pacificati, come dopo la visione di un bel film. Scopo di questi incontri è aiutarci, o costringerci, a fare sempre i conti con l’inquietudine. Non pensiamo di avere o di dover sempre avere soluzioni per ogni tipo di problema. Ce l’ha detto più volte chiaramente Johnny: dobbiamo guardarci dalla tentazione della funzionalità, del porci sempre la domanda del “adesso cosa possiamo e dobbiamo fare?” prima di fare lo scout siamo scout, cristiani, battezzati, etc. la funzionalità, il “moralismo” è un’altra malattia assieme alla tentazione di semplificare, di ridurre tutto ad opposizione “aut…aut”, o…o. La realtà non è bianca o nera ma una serie infinite di sfumature.

Ecco come ho vissuto e accolto la relazione di Johnny. Come una piacevole e abbondante offerta di stimoli, che possono aiutarci come singoli e come comunità ad affrontare la complessità della realtà. È questi stimoli “formativi” li possiamo vivere e condividere assieme, come comunità. Come comunità siamo chiamati a fare sempre passi avanti anche nel segno della crescita della dimensione della cittadinanza. L’individuo – l’io – non esiste, non ha senso. Esiste la comunità, l’altro, il tu. Abbiamo valore in quanto ci pensiamo come esseri comunitari e non come somma di individui. In questo senso l’AGESCI e il MASCI possono continuare a dare un contributo prezioso a tutta la collettività. La cittadinanza è veramente possibile. Una delle C dei pilastri che reggono l’intuizione del movimento MASCI è proprio la C di Città. Di questa Città siamo membra vive, cittadini consapevoli. In tutto quello che cerchiamo di fare con umiltà. Sapendo che “il Bello deve ancora venire”.

 

Il pomeriggio. La veloce presentazione del “luogo” che ci ha ospitati. Ogni volta succede questo. Non si tratta di scegliere per i nostri incontri un posto solamente in base a considerazioni logistiche, ovvero alla sua capacità di poter ospitare al meglio un gran numero di persone adulte. In realtà ogni luogo che viene scelto diventa formativo, ci permette di approcciare e conoscere realtà, civili, ecclesiali, artistiche e culturali, che non conoscevamo ancora. Il luogo che ci ospita è formativo, ci aiuta a crescere nel cammino di incontro e condivisione con ricchezze e valori che ci circondano. In questo pomeriggio ci è stata presentata, certo in maniera sommaria e concisa (non poteva essere diversamente per motivo di tempo) l’esperienza di vita contenuta nella grande realtà dell’Opera della Provvidenza di Sant’Antonio (OPSA). Un’immensa struttura che la Chiesa di Padova, a partire dall’allora vescovo Bortignon che ne era alla guida, si è data, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, per rispondere ai bisogni della disabilità presenti sul territorio dell’intera regione. Un’opera grande, possente, che può sembrare un po’ alternativa rispetto alla modalità odierna di affrontare il problema della disabilità, più attento alla dimensione piccola e famigliare. Ricordiamo che la nascita di quest’opera è avvenuta più di settant’anni fa’. Una struttura che continua ad essere punto di riferimento per tutto il vasto e complesso mondo della disabilità. È stato interessante renderci conto, anche in riferimento ai discorsi della mattina, che non è data per scontata l’esistenza di nessuna cosa. Tutto quello che nasce e che serve al bene della persona (in questo caso degli ultimi, dei disabili, degli anziani) è la risposta ad un bisogno concreto che qualcuno ha avuto il coraggio e la creatività di inventare e di mettere in moto. Papa Francesco nella Evangeli Gaudium parla della necessità di mettere in moto processi, magari senza la preoccupazione di vederne i risultati, che comunque non ci appartengono in alcun modo. Johnny ci ricordava che nessuno deve fare qualcosa, soprattutto alla nostra età, pensando di mangiare il frutto della propria semina e della propria fatica. Anche la grande opera che ci ha accolto, in questa giornata, è nata tanti anni fa’ dall’intuizione evangelica di una chiesa che voleva dedicare un vero e proprio tempio ai più poveri, dopo averlo dedicato al suo Signore. Un sottolineatura importante è che quest’Opera continua a vivere anche ai nostri giorni grazie al grande numero di “volontari”, giovani, adulti e anziani, che accettano di dedicare parte del proprio tempo a stare assieme, a fare compagnia alle persone che vivono all’interno di questa struttura. Il volontariato: un modo concreto per coniugare il tema della cittadinanza e per aiutarci ad uscire dal nostro individualismo per vivere la dimensione dell’incontro con l’altro, con il diverso, che a prima vista può disturbarci e turbarci.

 

Un’immagine che rappresenta plasticamente la giornata.

L’alzabandiera di questa giornata è stato particolarmente significativo. Duecentottanta persone, più o meno anziane, diversamente giovani, con ai piedi delle buffe copriscarpe usate dai sanitari negli ambienti ospedalieri. Le abbiamo messe ai piedi per non infangarci troppo per non sporcare gli ambienti in cui avremmo dovuto successivamente entrare per svolgere le nostre attività. Meriterebbe una foto questa folla incerta e un po’ disordinata vista da lontano attorno all’alzabandiera. Centinaia di persone vestite di scuro con il fazzoletto azzurro attorno al collo e ai piedi queste strane calzature dello stesso colore azzurro. Il terreno è una mescolanza di erba e di fango: una tonalità cromatica scura, tipicamente invernale che l’azzurro dei fazzoletti e dei piedi di questa moltitudine serve a ravvivare un po’. Con fatica, anche perché comincia a piovere abbastanza intensamente, ci disponiamo a quadrato attorno alla Bandiera. Le ombrelle e i pastrani sembrano non essere sufficienti. I foglietti del programma della giornata si bagnano in fretta. La cassa acustica non funziona. Ma il rito di inizio va’ fatto. E va’ fatto all’aperto. Attorno alla bandiera, appunto. Il suono del fischio ci invita al silenzio. Le tre bandiere vengono issate. Ascoltiamo con emozione la proclamazione della Legge Scout e poi facciamo assieme il canto della promessa. Lo scout sorride e canta anche nelle difficoltà. Quante volte ci è successo di vivere momenti come questi nei nostri anni giovanili? Terminato il canto possiamo entrare ed iniziare le nostre attività. Il rito non è una routine abitudinaria, ma un momento che serve a risvegliare dentro di noi lo spirito di appartenenza, la voglia di essere scout. Le parole del rito hanno un valore immenso, superiore alle altre parole, all’infinità di parole che ogni giorno ci diciamo l’un l’altro, proprio perché possiamo e riusciamo a ripeterle ogni tanto. E ogni volta che le ripetiamo sentiamo con emozione che sono sempre nuove, capaci di darci vita.

 

Stefano Costa